Il 26 giugno alle ore 18,30, nel giardino della biblioteca, Antonella Maucioni e Marcello Teodonio, insieme alla curatrice del libro Hilda Girardet presenteranno “Come canne al vento”, il diario di Giorgio Girardet giovane sottotenente valdese deportato, dopo l’8 settembre, nel campo di prigionia di Sandbostel per il rifiuto di continuare la guerra a fianco dei tedeschi e dei repubblichini di Salò. Giorgio Girardet tiene fortunosamente un diario, ritrovato quasi integro dalla figlia. Qui se ne propone la parte che va dal marzo 1944 al gennaio 1945 quando, nel campo di Sandbostel – lo stesso di Alessandro Natta, Giovannino Guareschi, Gianrico Tedeschi e tanti altri –, fu il pastore di una piccola rappresentanza evangelica e dove, sorretto da una grande fede e da una forte volontà di reazione, moltiplicherà le occasioni per incontri, gruppi di studio e stabilirà i primi rapporti “ecumenici” con alcuni dei cattolici più aperti presenti nel lager. In quei mesi getterà le basi per la sua lunga vita professionale di pastore, giornalista e studioso, sempre innovatore e sempre aperto al futuro.
Al di là del valore di testimonianza storica, queste pagine, attraverso le lenti di una prospettiva certamente parziale, ci permettono di scoprire come alcuni protagonisti di una generazione ora rimpianta abbiano saputo in condizioni drammatiche confrontarsi e gettare le basi culturali e morali per la ricostruzione del Paese.

Giorgio Girardet
Pastore valdese e giornalista, ha diretto il Centro ecumenico di Agape (To), ha fondato e diretto il settimanale “Nuovi Tempi” e diretto l’Agenzia di Stampa NEV, ed è stato docente di Teologia pratica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma. Autore di numerose pubblicazioni, si ricorda la trilogia Cristiani perchéBibbia perchéProtestanti perché, editi da Claudiana.

Hilda Girardet
Laureata in Pedagogia, è stata segretaria di redazione, docente elementare, ricercatrice ed esperta di Psicologia dell’Educazione presso l’Università La Sapienza di Roma. Specializzata nella didattica della storia, è autrice di alcune pubblicazioni sull’insegnamento della storia nella scuola di base.

Roma (NEV), 26 gennaio 2021 – “Siamo qui non per giudicare le tenebre, ma per illuminarle e dissiparle”. Lo scrive nel suo diario, tra il 1944 e il 27 gennaio 1945, dal campo di Sandbostel, un giovane sottotenente valdese, Giorgio Girardet, deportato nei lager della Germania nazista per il rifiuto di continuare la guerra a fianco dei tedeschi e dei repubblichini di Salò. In quello che fu anche il campo di Alessandro NattaGiovannino GuareschiGiarico Tedeschi e molti altri, Girardet fu il pastore di una piccola rappresentanza evangelica. La figlia Hilda Girardet ha riportato alla luce quella testimonianza, raccolta nel libro, appena uscito. 

Come è nata l’idea di questo libro? In che momento ha deciso di trascrivere i diari di cui dice fossero “interdetti a noi figlie” e sono “venuti fuori” qualche anno dopo la morte di Giorgio Girardet?

Mio padre non ne parlava mai, non raccontava mai di questa vicenda, giusto solo qualche volta dei piccoli aneddoti. Quello che ho scoperto sulla sua vita quotidiana a Sandbostel, l’ho letto nei racconti di altri internati. Sapevamo però dell’esistenza di questi diari. A 10 anni dalla sua morte ho deciso di pubblicarli. Quando li ho ritrovati, dopo la sua scomparsa, e iniziati a leggere, ho provato una forte curiosità, poi, considerata la piccola calligrafia, le parole scritte a matita, mi sono messa a trascrivere i testi. All’inizio era un lavoro che pensavo di fare solo per la nostra famiglia, per mantenere un contatto con lui. Poi mi sono resa conto del valore della sua esperienza. Mio padre era, che mi risulti, l’unico pastore evangelico prigioniero che tenesse un diario, nel quale racconta la sua attività di cappellano nel campo: mi sembrava, la sua, una testimonianza significativa per le chiese e non solo.

Chi sono stati gli IMI (Internati militari italiani)? Perchè a suo avviso se n’è parlato così poco, nonostante tra di loro vi siano stati personaggi di primissimo piano per la cultura e la politica italiana del dopoguerra? 

A livello della storiografia le vicende degli internati italiani sono state completamente e pienamente ricostruite, anche grazie al grosso impegno degli internati stessi. Ma per quanto riguarda la memoria collettiva, è in effetti una vicenda strana. Ad esempio la Medaglia al Valore è arrivata solo nel 2006. Un forte impulso è stato dato dal ricordo di Alessandro Natta, segretario del PCI dal 1984 al 1988, che non è comunque riuscito a pubblicare le sue memorie fino al 1997, quando uscì il suo libro “L’altra resistenza” (Einaudi).

Gli IMI rappresentano un esercito in disfatta, sono “i perdenti”, che non facevano e non fanno comodo a nessuno. La storia, come si dice, la fanno i vincitori e anche in questo caso un po’ è vero. D’altra parte credo vi sia una tendenza a studiare e considerare “a compartimenti stagni” queste vicende, mentre così non era e la realtà era complessa. Anche all’interno di molte famiglie italiane erano ben presenti queste molteplicità, ad esempio un figlio nella Resistenza – che rappresenta anche nell’immaginario, e giustamente, una pagina gloriosa della storia del Paese – e un altro militare. E’ ad ogni modo una vicenda che ha toccato tante persone, considerato che gli internati militari italiani sono stati quasi 700mila. Una storia che avuto un impatto importante su quel periodo e sugli anni a venire.

“L’Evangelo è al di sopra delle nazioni” ed è al centro di questi diari, certamente della vita di suo padre. Il culto come necessità, una battaglia costante per la comunità evangelica, il problema del “kerygma“. Pensa che nel corso della sua vita avesse poi trovato risposte e soluzioni a suo avviso efficaci per comunicare e annunciare l’Evangelo?

Bisognerebbe chiederlo a chi lo ha letto, ascoltato, a chi ha parlato con lui. Credo che questa sia stata effettivamente una preoccupazione costante della sua vita. La trasmissione radio, “Presenza evangelica”, i libri e le pubblicazioni, il Nev: mio padre è riconosciuto per questo suo impegno nel comunicare, e nel trasmettere in particolare l’Evangelo. Non solo, perchè è stato uno dei primi e più fervidi intellettuali a porsi il problema di come rivolgersi ai cattolici, lo dimostra nei libri che ha scritto, così come agli indifferenti rispetto ai temi religiosi. Ha sempre avuto una grande attenzione al mondo cattolico – e non solo – e il carattere ecumenico del suo percorso è fondamentale.

Suo padre nel 1944 scrive: “E’ la comunità che testimonia. Cos’è l’eroismo? […] La massa non conosce eroismo: è gregge”, un giudizio netto. Lo condivide?

La “comunità che testimonia” è la preoccupazione protestante per antonomasia: tutti i membri di chiesa hanno una responsabilità. Lo dice anche quando scrive la lettera agli evangelici di altri lager, di non lasciare soli i membri di chiesa nel loro impegno, che riguarda ogni persona. La collettività, le persone: un tema che ritorna nel racconto che dà il titolo al libro, l’idea di questa massa, in cui ognuno – persino i soldati tedeschi – è dominato, “come una canna al vento” (Matteo 11, 7: “Or com’essi se ne andavano, Gesù prese a dire alle turbe intorno a Giovanni: che andaste a vedere nel deserto? Una canna dimenata dal vento?). Ci leggo la compassione di mio padre e la profonda ed attualissima convinzione che “il peccato riguarda tutti”: la salvezza individuale non ha senso.

“Profanità”, un termine che ricorre spesso nel libro: suo padre cerca di sollevare se stesso e gli altri dalla contingenza, di sottrarsi alle “debolezze”, ai bisogni materiali, alla fame, al freddo, alla fatica. Un rigore e una forza sorprendenti, e anche molto “protestanti”. Che idea si è fatta di questo aspetto?

In parte penso sia una difesa, così come anche l’idea di tenere un diario suppongo fosse un modo per resistere, in parte lui era proprio così. Una disciplina impressionante, che ha avuto poi in tutta la sua vita, anche se era una persona molto scherzosa e non lo dava a vedere, ma in questo suo aspetto lo riconosco pienamente.

Lei scrive che “la foto” che ha lasciato suo padre è che “la salvezza sta nei libri”. La cultura emerge come un elemento imprescindibile del mondo del pastore Girardet. E’ questa una delle “lezioni” più attuali dei Diari, a suo avviso?

Secondo me sì. Quando l’ho trascritto ho percepito ancora più forte l’importanza della cultura e della memoria. Mio padre lesse in quel periodo oltre 200 libri, in un anno, mentre era prigioniero. Mentre gli altri internati chiedevano di poter ricevere altri beni, cibo e cose così, lui chiedeva libri. D’altra parte già allora era iscritto a Lettere all’università ed è stato un intellettuale, poi, nella sua vita. Ma è un messaggio importante anche per noi. Pensare che queste persone, che venivano da un momento drammatico e annichilente come il fascismo, nonostante ciò riuscirono a comprendere l’importanza di risollevarsi, di costruire, attraverso la cultura, la democrazia, il Paese, la società: è una lezione per tutti noi.

Suo padre 25enne è la stessa persona che lei ha conosciuto ed esperito o ha “scoperto” qualcosa che non sapeva, di lui?

Come dice Bruno Rostagno, che ha scritto la prefazione del volume, entrare nel mondo di una persona attraverso i suoi diari è difficile, può essere una sorta di “intrusione” nei pensieri intimi di un individuo. Al di là di questo, della difficoltà di entrare in relazione con un testo che è un diario, personale dunque, Mirella Abate, ad esempio, che ha curato la postfazione del libro, mi ha detto che riconosce perfettamente mio padre, la sua incrollabile fede. A me è questo che ha colpito moltissimo. Lo ricordo come un uomo scherzoso, anche molto autoironico, ma quello che mi ha davvero colpito e che in qualche modo ho “scoperto” in questo giovanissimo pastore è la sua fede risvegliata, una fede personale, e fortissima, che lo guida, sempre”.

 

 

 

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