“Una Storia dell’agricoltura che attendeva ancora di essere scritta”: così Piero Bevilacqua esordisce la sua prefazione al saggio di Ernesto Benelli. Già Professore ordinario di storia contemporanea alla Sapienza ed esperto di storia del territorio e dell’agricoltura italiana, Bevilacqua è stato il primo a rendersi conto che il libro di Ernesto Benelli rappresentava un’assoluta novità nel vasto panorama della letteratura agronomica e lo descrive come “un saggio di grande interesse, scientificamente solido, scritto con chiarezza e spesso con verve affabulatrice”. Non è solo storia, ma è geografia, antropologia, biologia, chimica, etica, filosofia: un lavoro enciclopedico scritto in 5 anni, ma che, dice Benelli, ha preparato mentalmente da 30 anni.

“Wendell Berry dice che “mangiare è un atto agricolo” … acuta affermazione che però si scontra con il fatto che per centinaia di migliaia d’anni gli uomini hanno vissuto solo raccogliendo e cacciando senza piegarsi alla fatica di coltivare e allevare. E allora, perché e come siamo diventati allevatori e agricoltori? E, soprattutto, chi ce l’ha fatto fare? Se come dice Jared Diamond «l’adozione dell’agricoltura, presumibilmente il nostro passo più decisivo verso una vita migliore, è stata per molti versi una catastrofe da cui non ci siamo mai ripresi».

Questa è una delle domande che pone il libro “Uomini, terra e cibo. Il lungo cammino dell’agricoltura”, che partendo dalle origini dell’umanità ripercorre il cammino che ci ha portati – unica specie tra i mammiferi – nel minuscolo contesto delle specie sociali che allevano e coltivano, che costruiscono abitazioni complesse e che usano il linguaggio per mantenere una società divisa in classi sociali – o nel nostro caso – economiche.

Coltivare e allevare, ossia costruire o accettare alleanze con altre specie animali e vegetali di cui siamo apparentemente dominus e inconsciamente schiavi, che cosa strana! Perché noi pensiamo di controllare il tutto senza riflettere sul fatto che quei legami – che abbiamo intessuto all’incirca 10-12.000 anni fa – non possono essere sciolti pena il ritorno al tempo della ricerca occasionale e degli accampamenti nomadi.

Il cibo è quindi lavoro e lavoro è civiltà? Tutto il percorso dell’uomo “moderno” è cioè legato al fatto che ci siamo piegati a una devozione costante che ci impegna nelle cure di altre specie? È su questo assioma che abbiamo costruito le antiche civiltà fluviali che innalzavano piramidi e torri di babele? E regni, e imperi, e commerci che portavano da una parte all’altra del globo i prodotti utili alla nostra sopravvivenza o alle nostre percezioni sensoriali?

E perché oggi, tutti devoti alla causa “produttivistica” e abbandonando le tradizionali pratiche agronomiche, abbiamo accettato che il procurarsi il cibo sia tornato un atto predatorio nei confronti della Natura?

Perché irroriamo di veleni i nostri campi, contaminiamo le acque e riempiamo di residui i nostri cibi? Perché questo ambito economico che dovrebbe essere così attento agli equilibri ambientali è diventato – tra le attività umane – uno dei settori più devastanti e inquinanti?

Come possiamo aver concepito e accettato un modello che nell’offrirci del cibo sempre più edulcorato e scipito ha portato all’azzeramento dei legami relazionali con le specie che ci sono vicine e che ci hanno accompagnato nello sviluppo di quello che noi definiamo “civiltà”?

Ecco, questo testo ci porta a interrogarci su queste e altre domande, mentre ci stimola a riflettere che sta scadendo il tempo per invertire questa pericolosa tendenza.